Marco Lucchinelli


Campione del mondo della classe 500 nel 1981, cantante esordiente al festival di Sanremo nel 1982 con il brano "Stella fortuna". Moto e musica: le sue grandi passioni. Ascoltava i ritmi reggae di Bob Marley tra un turno e l'altro e amava circondarsi di belle donne. Portava i capelli lunghi, l'orecchino e amava la vita spericolata.
Fu lui la prima vera rockstar italiana. La prima e forse l'unica rockstar del motociclismo. Marco Lucchinelli, il "cavallo pazzo", era così quando correva: genio e sregolatezza. E proprio in quel 1981 riuscì in un'impresa che sembrava impossibile: scalzare dal trono della classe regina sua maestà Kenny Roberts il marziano.
Andava forte il giovane pilota spezzino pupillo di Roberto Gallina. Forte sull'asciutto e ancor di più sul bagnato. Esordì in 500 a Le Mans nel 1976 sulla Suzuki RG e subito conquistò il cuore degli appassionati con uno splendido terzo posto ed il giro veloce in gara. Al Salzburgring e al Nurburgring fece ancor meglio: addirittura secondo. A fine campionato fu quarto assoluto.
Ma il suo carattere ribelle lo portò spesso a scontrarsi con chi gli stava intorno. Abbandonò Gallina per inseguire una nuova sfida, che però si rivelò devastante, solo delusione e frustrazione. In molti cominciarono a parlare di talento sprecato o, ancor peggio, di ex grande talento. Nel 1980 Virginio Ferrari lasciò Gallina, che richiamò Marco Lucchinelli nel suo team. Per Marco fu la grande occasione per riscattarsi e dimostrare a tutti di non essere un pilota finito. Sulla sua ex moto diede subito filo da torcere a "King Kenny" e al Nurburgring conquistò la sua prima vittoria. Nella stessa gara fece registrare anche il nuovo record del vecchio "Ring": 8.22.2, che rimarrà per sempre nella storia.
L'anno successivo, con cinque successi su undici gare, sette pole e cinque giri veloci, Lucchinelli conquistò di forza il campionato mondiale 500 davanti a Mamola e Roberts. E fu festa grande! La sua voglia di rimettersi sempre in gioco non si placò e da campione del mondo abbandonò nuovamente Gallina per la Honda.
Ma anche in quel caso fece i conti senza l'oste!
Il suo compagno di squadra, l'americano Freddie Spencer, lo oscurò completamente e alla fine del campionato fu solo ottavo. Oltre al danno la beffa: Franco Uncini, con la sua ex moto, si laureò campione del mondo 1982.
Alla fine del 1983, dopo un anno burrascoso, lasciò il Motomondiale e si dedicò alle potenti quattro tempi di Borgo Panigale nei campionati F1 prima e Superbike poi. Probabilmente, chi lo sa, se fosse stato più prudente avrebbe raccolto molto di più, ma non sarebbe mai stato "Lucky", il mito di una generazione intera.


Barry Sheene


Beveva Brandy e fumava Gauloises. Amava i Beatles, di cui era amico, e come loro era "Baronetto di Sua Maestà". Amava arrivare nel paddock, in compagnia della sua bellissima moglie Stephanie, alla guida di lussuose auto Mercedes, Rolls-Royce e, addirittura, di un elicottero. Ma Barry Sheene, il più temerario dei piloti, amava, soprattutto, le corse e le moto. C'erano più viti nel suo corpo che in un'utensileria, ed ogni volta che passava attraverso un metal-detector s'innestava la sirena. Un'autentica celebrità che sapeva conquistare le folle, dentro e fuori dai circuiti. Allegro, scanzonato e imprevedibile, fu il primo pilota a rinunciare al numero 1 di campione sulla carena per lo storico numero 7. Ma fu anche il primo a presentarsi sui circuiti indossando una tuta che non fosse nera... e poi quel Paperino dipinto sul casco...ecco chi era "Iron Man", l'uomo d'acciaio che conquistò  due titoli momdiali nella classe 500 con la Suzuki nel 1976 e nel 1977. Le trait d'union tra il vecchio motociclismo, quello dominato da Agostini e Hailwood, ed il nuovo motociclismo, quello degli "yankees" in sella alle moto dei colossi giapponesi. E anche quando all'orizzonte apparve l'astro nascente Ron Haslam, che come lui amava la bella vita e le belle donne, Barry Sheene restò la celebrità per eccellenza. Perchè nessun pilota aveva tratti nobili come i suoi. Perchè mai nessun pilota, prima di lui, aveva scelto di vivere in un castello. Quel ragazzino della periferia londinese, cresciuto tra l'odore di benzina e olio bruciato, che imparò ad andar in moto ancor prima che in bicicletta, dopo un inizio promettente rischiò quasi di perdersi per sempre. E così, quando si cominciò a parlare di Barry Sheene come di un semplice "fuoco di paglia", nel 1973 vinse la prima edizione della Formula 750 in sella alla Suzuki. Coloro che troppo affrettatamente lo condannarono dovettero ricredersi, e le porte verso la classe regina del Motomondiale si spalancarono di colpo.

"Stare davanti ed uscirne vivo" era il suo motto. E detto da uno che più volte si era trovato faccia a faccia con la morte faceva un cert effetto. Il più terribile dei suoi incidenti avvenne a Daytona nel 1975 quando, in sella alla Suzuki TR 750, all'altezza della sopraelevata, esplose la gomma posteriore e Barry volo vià a quasi 300 km/h, riportando fratture in tutto il corpo. E anche dal Paul Ricard, nel 1980, e da Silverstone, nel 1982, ne uscì malconcio. Ma Barry Sheene, come detto, era un temerario, e continuò a correre nonostante il parere contrario dei medici. Nel 1984, sotto la pioggia torrenziale del Sudafrica, conquistò il suo ultimo podio, il cinquantaduesimo di una carriera straordinaria, e al termine di quella stagione, fatta di alti e bassi, decise di ritirarsi. Ma non abbandonò mai del tutto quel mondo che lo aveva reso celebre. Di tanto in tanto, insieme ad altri campioni del passato, partecipava alle gare riservate alle moto d'epoca. Fino al 10 marzo del 2003 quando, un maledetto cancro, decise di portarselo via.  

Franco Uncini


Un casco che vola via e un pilota che rimane a terra privo di sensi, mentre le moto continuano la loro corsa, disturbate solo dallo sventolio delle bandiere gialle. Ecco cosa rimase negli occhi degli spettatori di quel terribile 25 giugno 1983. Ad Assen si correva il Gran Premio d'Olanda. In prima fila, sulla griglia di partenza, erano schierati Kenny Roberts, Freddie Spencer, Katazumi Katayama e Randy Mamola. Un incrocio di sguardi tra Freddie Spencer e Kenny Roberts e poi via. "Fast Freddie" partì a razzo, mentre "King Kenny" restò attardato, causa un problema di avviamento alla sua Yamaha. Giunto in prossimità della sequenza di esse, Spencer si girò a controllare la situazione alle sue spalle, tutto sembrava tranquillo, ma pochi istanti dopo...In uscita di curva, la Suzuki di Uncini - che in quel momento occupava la quinta posizione - sbandò, e il pilota marchigiano subì il classico high-side. Con un balzo felino si rialzò e cercò di guadagnare velocemente lo spazio di fuga, ma poco prima di raggiungerlo venne colpito in pieno dalla Honda dell'esordiente australiano Wayne Gardner. Un silenzio agghiacciante calò sugli spalti e nelle case degli italiani che in quel momento stavano seguendo la gara in televisione. Da quel terribile incidente, in cui si fratturò naso, mento, costole e due vertebre, Franco Uncini non si riprese mai completamente e nel 1985 fu costretto a dire addio alle corse.

"La fatalità è stata che Gardner fosse alla sua prima gara nel mondiale. Se avesse aspettato a debuttare non avrei avuto l'incidente. E' dura addossargli la colpa, ma Randy Mamola, Raymond Roche e Kenny Roberts, che mi seguivano, mi hanno evitato. Lui, che era più lontano e con maggiori possibilità di valutare la situazione, mi ha investito. Forse, con un po' più di esperienza da parte sua non sarebbe successo niente." E' con queste parole un po' "risentite" nei confronti di Wayne Gardner, che Franco Uncini rispose ad un'intervista sul suo incidente rilasciata qualche anno dopo. E pensare che solo un anno prima, su quella stessa pista, il pilota di Recanati, che per anni fu il privato più veloce del mondo, conquistò la sua terza vittoria stagionale. Una vittoria importante, anzi importantissima, che gli spianò la strada verso il titolo mondiale della 500. Dopo anni di lotte impossibili contro le potenti moto ufficiali, nel 1982 Roberto Gallina gli offrì la possibilità di guidarne una. E poco importa se Marco Lucchinelli, campione del mondo in carica era emigrato alla Honda, se "King Kenny" e la sua Yamaha vivevano tempi difficili, se Freddie Spencer non era che un giovane esordiente... quel titolo, Franco Uncini, se lo meritò tutto, fino in fondo. Con cinque vittorie e due podi chiuse il discorso mondiale con tre gare di anticipo, relegando il secondo, Graeme Crosby, a 27 lunghezze. Una superiorità schiacciante, a volte anche imbarazzante, se si considera che allora il primo raccoglieva 15 punti e il secondo 12. In quel magico 1982 Uncini si divise gli onori della cronaca sportiva con una altro grande personaggio, quel Paolo Rossi eroe di Spagna dell' Italia "mundial".Al suo rientro a Recanati fu festa grande. Ad accoglierlo i suoi tifosi, che lo videro crescere quando, ancora quattordicenne, scorazzava per le strade del Monte Conero in sella al suo Giulietta Peripoli "smarmittato". E chissà se anche lui, come quel suo più illustre concittadino che rispondeva al nome di Giacomo Leopardi, da ragazzino salì su quell'ermo colle con la speranza, un giorno, di poter realizzare i suoi sogni...

Burt Munro


Nel 1920 un giovane ventunenne di Invercargill, piccola cittadina della Nuova Zelanda, acquistò una Indian Twin Scout bicilindrica. Fu l'inizio di una lunga storia d'amore. Dopo sei anni di romantiche passeggiate lungo le spiagge e sulle panoramiche stradine nei dintorni di Invercargill, nel 1926 il giovane Burt Munro promise alla sua compagna del Massachussets di farla diventare la Indian più veloce del mondo. Per Burt iniziarono così lunghe notti trascorse in garage a lavorare su motore e telaio, a fondere metallo per ottenere bielle e pistoni ogni volta più robusti e affidabili, perché la sua Indian doveva essere perfetta. Talmente perfetta da assorbirlo completamente. Ed è proprio per lasua amata Indian che Burt lascerà prima la moglie e poi, nel 1948, il lavoro. In questi anni di intenso lavoro gareggiò moltissimo, principalmente su spiaggia, stabilendo numerosi record, come quando riuscì a lanciare la sua Indian a ben 120,8 miglia orarie (194,36km/h); record che rimase imbattuto per ben dodici anni. Purtroppo furono anche anni di brutti incidenti che segnarono pesantemente il suo fisico, soprattutto il cuore.

Ma c'era un nome che ricorreva spesso nella testa di Burt - Bonneville - il lago salato dello Utah dove ogni anno si teneva il festival della velocità. Sognò per tutta la vita di poter correre su quell'immensa distesa bianca dal fascino irresistibile, e nel 1962 ci riuscì. Il suo, più che un viaggio, fu un'odissea .E quando finalmente poté accarezzare con mano quella bianca distesa tanto sognata, come un fulmine a ciel sereno arrivò la terribile doccia fredda: gli fu negata la partecipazione, non solo perché non regolarmente iscritto, ma anche perché la sua moto non rispettava i minimi requisiti di sicurezza richiesti. Quando tutto sembrava oramai perduto e destinato a rimanere un sogno nel cassetto, grazie all'intercessione di Rollie Free e Marty Dickerson, rispettabili membri della"Land Speed Record fraternity", riuscì a prendere il via. A 63 anni, con il cuore malato e la gamba bruciata dallo scarico della moto, Burt stabilì il nuovo primato mondiale per motociclette sotto i 916 cc alla velocità di 178,971 miglia orarie (288 km/h). Quando rientrò ad Invercargill fu salutato da tutti come un eroe. Per anni continuò a lavorare intensamente per accrescere ancora le prestazioni della sua Indian e, nel 1967, con la cilindrata incrementata a 950cc, tornò a Bonneville per stabilire, alla bella età di 68 anni, un nuovo record. E ci riuscì. Venne cronometrato alla stratosferica velocità di 183,58 miglia orarie (295,5 km/h). Questo record è tutt'ora imbattuto. Nel 1978, al rientro da una passeggiata, il cuore di Burt, ormai malato da anni, cedette, separandolo per sempre da quella Indian Twin Scout che fu, per quasi 58 anni, la sua ragione di vita. Di lui resteranno per sempre la grande voglia di vivere, di sfidare il tempo e il destino. E quando vedrete un simpatico vecchietto in sella ad una vecchia motocicletta non potrete non pensare a Burt Munro.


Joey Dunlop

"Al TT non conta sapere dove devi aprire il gas, ma dove devi chiuderlo". In questa celebre frase dell'indimenticato Joey Dunlop è nascosto il segreto per vincere sull'Isola di Man. E considerando il suo palmares, ben 26 vittorie lungo il pericolosissimo "Mountain", c'è proprio da crederci. Anche David Jefferies, scomparso nel 2003 durante le prove del Tourist Trophy, e considerato da tutti l'erede di Joey Dunlop, affermò di avere imparato di più in un solo giro alle spalle di Joey che in tre anni di partecipazione alla corsa. Ma Joey, uno dei piloti più forti di tutti i tempi, non immaginava che quel maledetto 2 luglio del 2000 a Tallin, in Estonia, la "Nera Signora", nascosta tra gli alberi, fosse lì ad attenderlo. Inun attimo la piccola Honda 125, a causa dell'asfalto bagnato, sbandò, e per Joey non ci fu nulla da fare. Se ne andò così Joey Dunlop, The King of the Road, mentre era al comando di una banalissima gara delle 125. Se ne andò a 48 anni lasciando soli la moglie Linda e i cinque figli: Julie, Donna, Gary, Richard e Joanne. La televisione dell'Irlanda del Nord trasmise in diretta le esequie e per l'occasione fu anche dichiarato un giorno di pace nazionale, il primo, e finora unico, giorno di pace nazionale in un secolo di conflitti.


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